Se la filosofia oggi apre la mente ma svuota le tasche
Politica e cultura
Dettaglio de «Gli Archeologi» (1927), Giorgio De Chirico
Siamo tanti. E siamo piuttosto arrabbiati. Siamo un esercito di giovani laureati in filosofia che combatte una battaglia, quella contro la disoccupazione e la precarietà, che, oltre a non avere nessuna ragione di esistere, è ingiusto siano i giovani stessi a farsene carico pagandone le spese. Già, perché iscriversi alla facoltà di filosofia, nel 2020, non dev’essere un atto anticonformista o, peggio ancora, di coraggio ma dovrebbe essere semplicemente un diritto: quello di scegliere il proprio lavoro alla luce delle proprie passioni e inclinazioni.
Ma facciamo un passo indietro.
Lo scorso 19 novembre si è celebrata la giornata mondiale della filosofia, istituita dall’UNESCO nel 2002, e quest’anno in Italia, in occasione di tale evento, il Ministero dell’Istruzione, con la collaborazione con le istituzioni di cultura e ricerca e con il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, ha proposto un’iniziativa dal titolo «La filosofia c’è. Un’agenda per il futuro» che suona abbastanza ipocrita. C’è davvero un futuro per la filosofia in Italia, soprattutto nell’ambito scolastico? Ovviamente la risposta a tale domanda retorica è una, ed è sempre e solo “no!”. Per questo, il collettivo del movimento Filosofia Futura (ancora una volta, non a caso, incontriamo questo termine) ha dato vita ad un “manifesto”, unito ad una petizione da inviare al governo per far fronte alla mancanza occupazionale. La ragione di tale iniziativa è da ricercare nella degradazione del ruolo della filosofia e la sua progressiva scomparsa dal mondo scolastico ad opera delle riforme degli ultimi decenni.
Sono gli anni che vanno dal 1997 al 2000 e Luigi Berlinguer con la sua riforma, detta anche “riforma dei cicli”, propone di introdurre la filosofia (seppur non in forma storica) già nel biennio del secondo ciclo di istruzione e il suo insegnamento a partire dal triennio in tutti i tipi di scuola, riconoscendone la valenza formativa per tutti i corsi di studio.
Tale riforma non è, però, mai entrata in vigore in quanto abolita nel 2001 dalla ministra Moratti che lasciò, però, attivo l’insegnamento della filosofia non più nel biennio, ma solo nel triennio di tutto il sistema dei licei, compresi i licei tecnici. Tuttavia, il colpo più duro che ha dovuto subire l’insegnamento della filosofia è avvenuto nel 2008 con la riforma della Gelmini, che ha dato vita ad una grande opera di razionalizzazione e ridimensionamento delle risorse.
La nuova legge oltre a ridurre il personale (è un caso che nel nostro Paese il rapporto docente/alunni sia uno dei più bassi a livello europeo?), razionò anche la quantità di ore di lezione afferenti a ogni Liceo o Istituto. Come se non bastasse, un’ulteriore problematica è rappresentata dalla possibilità di attribuire una cattedra di una classe di concorso a docenti che hanno classi di concorso affini a quelli per cui ottengono la cattedra, attraverso il cosiddetto meccanismo delle “classi atipiche”. Meccanismo, questo, non reso valido per i laureati in filosofia (aventi solo la classe di concorso A-19), il cui insegnamento avviene a partire esclusivamente dal triennio delle scuole del secondo ciclo di istruzione e che apre ad una serie di problematiche come il fatto di rendere l’insegnamento di scarsa qualità non tenendo conto delle specifiche competenze (ad esempio, un’unica persona può insegnare discipline molto diverse come Filosofia, Storia, Psicologia, Pedagogia, Sociologia, ecc.)
Ora, alla luce di quanto letto risulta chiaro il motivo della rabbia, dello sconforto e della delusione che attanaglia i laureati in filosofia che non smettono di chiedersi quali siano i criteri alla base di queste scelte volte a “smantellare” la filosofia dal mondo scolastico italiano. Perché la filosofia infastidisce così tanto e perché nel 2020 i più la considerano “inutile”? Intendiamoci, che sia il mio vicino di casa, mia zia o un passante qualsiasi a dirmi che “la filosofia non serve a niente se non a farsi problemi inutili” posso anche tollerarlo, ma quando questa mentalità paesana e superficiale proviene dai nostri governanti e da coloro che decidono per il nostro futuro, diventa abbastanza problematico. Già, perché, se così fosse, allora l’UNESCO non definirebbe la pratica filosofica come “scuola per la libertà” dal momento che:
costruisce gli strumenti intellettuali per analizzare e comprendere concetti chiave come la giustizia, dignità e libertà, nella misura in cui aiuta a sviluppare capacità di pensiero e indipendenza del giudizio [e in quanto] stimola la capacità critica per capire il mondo e i problemi che pone.
E, continuando, nelle Indicazioni nazionali non leggeremmo che le abilità e le competenze che questa disciplina promuove sono:
la riflessione personale, il giudizio critico, l’attitudine all’approfondimento e alla discussione razionale, la capacità di argomentare una tesi, anche in forma scritta, riconoscendo la diversità dei metodi con cui la ragione giunge a conoscere il reale.
Da sempre, dunque, si riconosce all’educazione il fondamentale compito di sviluppare le potenzialità degli individui e creare le condizioni in vista della loro piena realizzazione. In questo senso, la scuola non può e non deve permettere che i giovani inclini al pensiero filosofico si sentano scoraggiati dal continuare in tal senso il proprio processo formativo optando per uno più redditizio in quanto agganciato al mondo lavorativo.
Ovviamente non è solo responsabilità della scuola ma anche della società che, qualora continui a non riconoscere la portata di un sapere che è alla base della nostra identità storica, culturale e sociale e, per citare Nuccio Ordine nel suo libro L’utilità dell’inutile, si mostri ossessionata dalle logiche del profitto e dal “culto dell’utilità”, finisce per inaridire lo spirito e fallire miseramente nella sua funzione essenziale.
Giusy Nardulli