Mestieri e Società, che fantastica storia Gravina - GRAVINAOGGI

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Mestieri e Società, che fantastica storia Gravina

Città e territorio

Pubblicato un nuovo libro di storia sociale scritto da Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli dal titolo MESTIERI E SOCIETA’ nel Novecento a Gravina in Puglia, edizione Algramà, Matera 2023. Con illustrazioni di Marilena Paternoster e l’Alto patrocinio del Comune di Gravina in Puglia. Trentatré antichi mestieri osservati dagli autori: personaggi, luoghi, abilità, attrezzi adoperati in passato da artieri, contadini e pastori della Murgia. Le storie e i ricordi di un paese, gli stili di vita di una comunità rivivono nelle testimonianze della sua gente. E tutto ciò che è relativo all’uomo è oggetto della storia. Il testo è in vendita nelle cartolibrerie di Gravina in Puglia.

LA CUOCA DELLA ZITA, la cûche de la zite

Era la cuoca delle feste nuziali d’altri tempi, la cûche de la zite la signora Maria Carmela Matera (1878 - 1965) coniugata Donato Oliva (1868 - 1940), senza figli. Fu accudita fino alla fine dei suoi giorni dalla nipote Arcangelina Abbattista figlia di sua sorella Maria Cristina Matera.  Abitava in via Casalnuovo, quartiere antichissimo di Gravina sorto nel sec. XVI intorno alla chiesa di Santa Sofia, fondato e abitato dagli Albanesi (detti anche Greci) venuti al seguito di Angela Castriota Scanderbeg.
È stata la cuoca delle feste nuziali di tutta Gravina fino agli anni cinquanta, prima che si spalancassero le porte dei veglioni del paese; sale che prendevano la denominazione dai nomi dei proprietari degli immobili: Veglione di Marcello in via Ragni, Veglione di Moramarco in via Punzi e qualche altro.  E negli anni sessanta - anni del cosiddetto miracolo economico - fu inaugurata la Sala Ricevimenti Ragno Verde in via Trieste di proprietà del costruttore Beniamino D’Agostino, soprannominato sàbete se pénze che rappresentò una meraviglia per tutta la città e dintorni.Ma la figura e l’opera della cuoca delle feste nuziali popolari rimase in auge fino ai primi anni settanta sia nelle case degli sposi che nelle nuove location.
La qualità dei piatti profumava di cucina contadina con la saporosità dei timballi, u tumbône, degli agnelli e del marro al forno. Sulla tavola in abbondanza c’erano picciladjiedde e sasanjidde, e alla sera, in chiusura della festa, veniva servito agli invitati il panino imbottito con mortadella e provolone piccante. Non mancava, per i consueti bevitori, il vino locale servito a tavola nella tradizionale brocca di terracotta smaltata, u rezzûle.  Ad un certo punto del ricevimento nuziale, di solito prima o dopo che fosse servita la frutta, gli sposi giravano per i tavoli degli invitati distribuendo candidi confetti. Lo sposo reggeva un grande vassoio decorato ricolmo di confetti, mentre la sposa con un cucchiaio d’argento riversava i confetti in un fazzolettino decorato a tutti gli invitati, u fazzelettine de le cumbjite.
Sul finire della festa gli sposi distribuivano agli invitati u fazzelettine de le dulce. E subito dopo veniva servita la torta nuziale, una prelibatezza molto attesa dagli invitati. Durante quest’ultima parte della festa, l’epilogo in buona sostanza dell’evento, veniva offerto il classico quartino di gelato, cioè il tipico spumone del bar di Natalino Spondelli e l’immancabile bicchierino di rosolio preparato dalla cuoca, u rûsoglie.
Alcuni giorni prima della festa nuziale i genitori degli sposi contattavano personalmente la cuoca, che impartiva ordini categorici sul da farsi. In base al numero degli invitati la cuoca stabiliva le quantità di beni necessari per la festa: maccheroni per il timballo, le trecce di mozzarella da sfilacciare e la carne tritata per le polpettine da inserire nel timballo, olio vergine di oliva, sale e quant’altro necessario. Molta importanza veniva data alla preparazione del secondo piatto, cioè l’agnello al forno. La cuoca ispezionava le parti d’agnello che il macellaio spezzettava, pezzi che dovevano bastare per le porzioni: né troppo abbondanti, né troppo misere.
Il timballo di maccheroni era ed è tutt'oggi un piatto appetitoso e sfizioso, con una croccante superficie e un ripieno irresistibile.Si tratta di una antica ricetta tipica della cucina locale. A Gravina quando si parla di timballo affiorano alla mente i ricordi delle feste nuziali. La preparazione del timballo rimane un rito, sempre.
Anche il marro era ed è tutt'oggi una squisitezza della cucina contadina gravinese; veniva preparato dalle preziose mani della cuoca, qualche giorno prima della festa. Nel primo pomeriggio della festa nuziale gravinese bussava alla porta del veglione un anziano signore, Girolamo Elenterio, soprannominato Gelòrmeduresarje - una vecchia conoscenza di tutto il paese, che recitava il rosario all’ingresso del cimitero su incarico dei parenti dei defunti - che chiedeva qualcosa da mangiare.  La cuoca, da persona solidale che era, gli passava spesso più porzioni di timballo che quel curioso viandante metteva addirittura in tasca.
C’erano due categorie di invitati al banchetto, quelli di tavola per il pranzo del mezzogiorno e per tutta la durata dell’evento e quelli di complimento invitati solo per la festa serale, i primi de tavele e gli altri de cumbleménte. Gli invitati de cumbleménte arricchivano oltretutto la festa, con la partecipazione ai balli, colorando gli sposi che ballavano al centro sala di stelle filanti, di strisce di carta colorata arrotolate su se stesse, le fettucce. Durante i balli venivano lanciati confetti e caneline, momenti di grande gioia per i bambini i quali si buttavano a terra per raccoglierli. Gli Invitati de tavele erano i parenti stretti degli sposi e i compari di nozze.
L’incessante verifica sul campo della cuoca perché tutto procedesse nel migliore dei modi conosceva momenti di tregua soltanto quando si ballava e i commensali abbandonavano i tavoli ancora imbanditi. Il richiamo della musica era inesorabile e il gruppo musicale - u comblesse, o ancor prima u scjiezze - incitato dalle continue, a volte estenuanti richieste dei genitori, dei compari di fede e dei più irrequieti doveva intonare subito, con il boccone ancora in gola, le mazurke, le polke, i valzer, i fox- trot, le tarantelle e le quadriglie. Non c’era scampo per i giovani sposi e gli altri invitati di più giovane età che avrebbero preferito ascoltare le canzonette del momento e ballare il lento per corteggiare e stringere tra le braccia le signorine in erba.
Un’idea di quanto fosse movimentata la tarantella gravinese ce l’ha fornita il compositore gravinese maestro Domenico Mastromatteo che ha descritto con plastica compiutezza il ballo nel quale gli sposi svolgevano il ruolo di protagonisti: Mo balle lu zite, la zite ve menze, june l’allasse e l’alte accummenze, mo ballle mbaidd, mo balla mbajedd e abballôme la tarandedde.  …. Viva a la zite, viva a lu zite, scettete vu uagnùn e canelìne e cumbettune.
Ma il pezzo classico, che non mancava mai nei matrimoni, era la quadriglia comandata, croce e delizia degli invitati e degli sposi che, sotto la guida di un comandante, dovevano eseguire le diverse figure del ballo: o spasse, la fèmene nanze e l’omene drôte, sciangè la dame …. Un ballo molto articolato che non sempre riusciva bene, qualcuno rimaneva indietro e dai a ricominciare con la musica, sotto lo sguardo divertito e sfottente di quelli che rimanevano seduti a tavola perché troppo anziani o incapaci di danzare a quella maniera. Il gruppo dei musicisti usava pazienza nel riprendere il brano ogni volta che c’era un’interruzione. Spesso le quadriglie si ballavano con i dischi e c’era un addetto che riportava la puntina del braccio del giradischi sul solco iniziale ogni volta che bisognava ricominciare.
La cûche de la zite era punto di riferimento nelle tre giornate della festa nuziale, come si usava in quegli anni. Godeva della stima e della fiducia delle famiglie degli sposi. Veniva invitata anche a partecipare nella scelta dei vari monili d’oro e d’argento che i genitori regalavano agli sposi secondo le tradizioni locali.
Anche ai musicisti che allietavano la festa veniva spesso offerto lo stesso pranzo servito agli invitati. La cuoca veniva remunerata in parti uguali dalle due famiglie degli sposi i quali mantenevano ottimi rapporti di amicizia e stima in previsione di eventuali altri matrimoni.  La cuoca è stata nella sua storia maestra di vita e di cucina.
La signora Maria Carmela Matera, cumma Carmêne, come la chiamavano molte famiglie gravinesi, menava vanto per il lavoro che lei svolgeva e per lo status sociale che rivestiva nel paese. Si inorgogliva sempre quando le dicevano: che bella zite a me fatte!
Scatto di Carlo Centonze
La redazione di Gravinaoggi.it



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