Il sarto -" u cus'tour" - GRAVINAOGGI

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Il sarto -" u cus'tour"

Città e territorio
A Gravina c'erano tanti sarti. Le vetrine dei sarti non avevano insegne e non erano addobbate ma sempre pulite e luminose. Erano dislocate sulle vie principali del paese. Sulla via San Sebastiano il sarto Bellocchio ha "fatto scuola", dava lezioni di taglio e cucito. Come pure il sarto Mercede, così conosciuto, così socievole. Validi artigiani, veri professionisti si direbbe. Il Sarto (u cus'tour'), un antico mestiere tra i più affascinanti. Di rilevanza sociale. Richiedeva abilità e competenze per vestire uomini e donne, con eleganza e classe, con creatività e gusto del bello, senza mai scadere nel pacchiano o nel volgare. Quella dei sarti era una categoria veramente particolare. I sarti di un tempo erano tutti istruiti, leggevano molto ed erano felici di fare sfoggio della loro cultura. Nel laboratorio del sarto non mancavano mai i giornali. Era anche luogo di ritrovo. Dai sarti (jnd o' mest) si trovavano pochi ma indispensabili strumenti utili alle attività: un grande tavolo, le forbici, le macchine per cucire con e senza i pedali, il manichino di legno, i pesanti ferri da stiro a carbone, i modelli di carta per abiti, lunette, ecc. Un tempo, moltissime ragazze e ragazzi prestavano servizio gratuito nelle sartorie. Proprio per acquisire la manualità e apprendere i segreti del taglio. I clienti del sarto erano i galantuomini e la gente ricca, ma anche contadini poveri del paese. Una volta che il cliente aveva deciso la stoffa il sarto prendeva le misure del committente, calcolava la quantità e la ordinava insieme agli accessori necessari. Il vestito veniva prima disegnato sulla stoffa, ritagliato, imbastito e dopo alcune prove veniva cucito definitivamente. Proprio nelle grigie e fredde giornate invernali, si aveva la massima unità lavorativa all'interno delle sartorie: chi intenta a riunire le cuciture, chi a fare asole, chi i sottopunti, chi altro ancora. In genere tutte le donne erano radunate in una grande sala, dove in mezzo campeggiava un lungo e largo tavolo. Che serviva per stendere il panno, per segnarlo con il gessetto e poi tagliarlo. Normalmente l'operazione del taglio veniva fatta sempre dal sarto. Di norma si imparava il lavoro guardando, carpendo i segreti e facendo attenzione alle varie successioni di confezionamento. E i giovani apprendisti solo quando avevano acquisito una certa padronanza dell'arte, "passavano al taglio", che rimaneva l'apice dell'apprendimento. Sarà capitato a tanti di andare in un laboratorio di sartoria: di solito il sarto, vestiva sempre con camicia e gilè e su questo aveva sempre puntati alcuni aghi con il filo. In ogni angolo della stanza c'era un gruppetto di ragazze, che sedute su una sedia o uno sgabello, erano intente al proprio lavoro. Il sarto si avvicinava al cliente e con una fettuccia metrica misurava la vita, la gamba, il braccio. Il cliente poi ritornava, e il sarto gli provava addosso la giacca o i pantaloni, segnati da dei grandi punti di filo bianco. Tornava nuovamente il cliente, per indossare finalmente il vestito finito. E i complimenti di circostanza diventavano obbligatori. Quel "bel vestito" era frutto di un lavoro certosino. Un atto d'amore del sarto verso il suo lavoro. A sera poi, l'abito nuovo, ben stirato, veniva consegnato a domicilio del cliente (a cunsegnè), dal garzone della bottega (u uagnoun d' la putè). Oggi non ci sono più ragazzi disposti a frequentare quei pochi laboratori sartoriali rimasti. Quando escono dalle scuole settoriali, che durano diversi anni, gli studenti forse non sanno neanche tenere un ago tra le dita. Un tempo in tre anni di pratica un ragazzo volenteroso era già pronto a fare vestiti ed ottenere risultati. Molti giovani sarti gravinesi infatti negli anni della ricostruzione e del boom economico si sono trasferiti al nord Italia e, dopo alcuni sacrifici, hanno "fatto fortuna" nelle sartoria più prestigiose. Oggi si godono la pensione con dignità e benessere assicurato. Un anziano sarto gravinese, Francesco Fracchiolla, emigrato al nord negli anni Sessanta, oggi residente a Milano, è "orgoglioso di aver collaborato in questi anni con le più famose case di moda italiane, abiti esclusivi conosciuti in tutto il mondo". Nei tempi più recenti, la diffusione delle confezioni industriali in serie degli abiti ha reso più rara questa professione riservandola ai capi più pregiati dell'alta moda (prevalentemente femminile) ed alle sartorie di fascia alta per la clientela maschile. Nei piccoli centri e nelle aree dell'Italia centro-meridionale resiste la presenza della tradizionale piccola bottega artigiana composta da uno o due titolari ed alcuni aiutanti; l'attività di queste botteghe è rivolta esclusivamente alle riparazioni di capi acquistati. Oggi gli abiti possono servire a nascondere lati della personalità che non si vogliono far conoscere o, viceversa, a mostrarli. Si pensi, ad esempio, al proverbio: "l'abito non fa il monaco". E il proverbio, come si sa, non sbaglia mai.
Michele Gismundo
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