Il regno è vicino
Politica e cultura
Domenico Ghirlandaio, Vocazione dei primi apostoli, Cappella Sistina, Città del Vaticano
Appena terminata l’esposizione della trilogia comune ai sinottici (il Battista, il battesimo di Gesù, la prova), l’evangelista Marco riprende la narrazione, dandoci un’indicazione temporale importante, che apprendiamo dall’attacco del vangelo di oggi. Gesù inizia a proclamare il regno di Dio, scrive Marco, «dopo che Giovanni fu arrestato» (Mc 1,14 cf. anche Mt 4,12). Molti immaginano che la cronologia dell’inizio del ministero pubblico di Gesù si sia svolta così: dalla Galilea, regione da cui viene, Gesù scende al Giordano per essere battezzato. Subito dopo viene tentato e rimane quaranta giorni nel deserto, per poi ritornare in Galilea. Ma deve invece essere passato più tempo, e il punto di svolta, ciò che fa tornare Gesù in Galilea, è rappresentato dall’arresto del Battista. Forse è in quel preciso momento che per Gesù arriva la consapevolezza che ora di assumersi le sue responsabilità: la voce che gridava nel deserto – e ora viene fatta tacere – passa alla parola che annuncia il regno. Questa interpretazione aiuta noi credenti nei momenti di difficoltà e sofferenza (come dev’essere stato per Gesù l’arresto di Giovanni): è allora che bisogna fare qualcosa. È in tali situazioni che, se non vai tu, nessuno può andare al posto tuo. La chiamata che ora Gesù farà dei discepoli, l’ha vissuta in prima persona lui; il regno che annuncia, l’ha visto arrivare per primo lui, anche nella dolorosa notizia che Giovanni non può più parlare.
Ma eccoci a una questione teologica importante. Come potremmo descrivere il regno proclamato da Gesù? La difficoltà principale è che Gesù non ha mai usato nessuna definizione per parlarne. Si è servito piuttosto di parabole e immagini, paragonandolo, per rimanere al Vangelo secondo Marco – che leggiamo quest’anno –, a un seminatore che getta del seme in terra (Mc 4,26), o a un granello di senapa (4,31), e così via. Il regno, dice Gesù, non solo è vicino (come si vede dalla lettura di oggi): bisogna accoglierlo, come fanno i bambini (10,15), ed entrarci dentro, anche se non è così facile, soprattutto se si hanno molte ricchezze (10,23). È presente, cioè qui o vicino, ma è anche futuro, come quello in cui Gesù berrà, insieme a noi, il vino nuovo, altro vino rispetto a quello dell’ultima sua cena (14,25). La teologia cristiana ha elaborato a proposito una formula, quella del “già” ma “non ancora”, quasi un ossimoro che dice però come il regno possiamo già ereditarlo e viverci, anche se non è ancora compiuto. Non è ancora esteso a tutti gli uomini, ma, come insegna il documento del Concilio Vaticano II Lumen Gentium, «è già presente in mistero» con la Chiesa (cfr. n. 5).
In questo senso, Gesù si distingue dalle due principali concezioni sul regno che circolavano nel giudaismo del suo tempo. Egli infatti non ha inventato questa idea, già nota all’Antico Testamento (es.: 1Cr 28,5), e non l’ha applicata né a quel modo di pensare che vedeva il regno come una realtà “nazionalistica”, tutta presente, da attuare magari ad ogni costo, né tanto meno alla concezione opposta, di tipo apocalittico, che vedeva il regno possibile solo come una realizzazione futura che negava il presente. Se vogliamo rintracciare questi due estremi nella storia dell’umanità, potremmo dire che il materialismo si è spesso fondato sull’illusione che tutto potesse risolversi qui, adesso; ma dall’altra parte è facile riconoscere i movimenti spiritualistici che svalutano il presente e lo considerano in modo negativo.
Gesù ha invece usato l’idea di regno per dire anzitutto che è arrivato, e quindi ci si può entrare. Ma per farlo bisogna cambiare mentalità, mente, modo di ragionare e pensare; per dirlo con le parole di Gesù: «convertirsi» (Mc 1,15). «Venga il tuo regno!», prega ancora la Chiesa, oggi, dopo duemila anni. Il regno c’è già, ma deve ancora essere accolto come un dono, e trovato lì anche dove si fatica a vederlo.
Il vangelo continua descrivendo la “fretta” di Gesù di portare ad attuazione la sua parola sul regno, perché “il tempo è compiuto”. Il concetto emerge molto chiaramente nel vangelo di Marco, dove abbonda l’avverbio euthus, “subito”, ripetuto decine di volte (anche se non sempre reso nelle traduzioni moderne). Tale sollecitudine trova una prima applicazione nella chiamata dei quattro discepoli (vv. 16-20) e nell’episodio dell’insegnamento nella sinagoga di Cafarnao, accompagnato dalla liberazione di un indemoniato (di cui leggeremo domenica prossima). Gesù, con gesti e con parole, mostra davvero come il regno è arrivato, e lo dice: ai discepoli (appena chiamati a sé) e alla sua gente (nella sinagoga). Ecco che allora il regno può essere solo uno spazio in cui Dio è presente, dove – appunto – solo lui regna. Le altre potenze non possono fare altro che riconoscerne l’autorità («Io so chi tu sei: il santo di Dio»; 1,24) e sottomettersi.
I padri della Chiesa erano colpiti del modo in cui Gesù chiamò i primi a seguirlo: rilevano che erano persone semplici e illetterate (Origene), che probabilmente avranno obiettato con la loro inadeguatezza (Eusebio); noi ci stupiamo anche del fatto che questi “subito” lascino le reti e lo seguano (cfr. Mc 1,18), ma soprattutto per il fatto che ancora oggi, dopo tanti anni, Gesù ancora “passi accanto” (Mc 1,16) alle nostre situazioni, al nostro quotidiano, alle nostre reti, e ci inviti a seguirlo per stare con lui.
Padre Giulio Michelini cercoiltuovolto.it