Il fuoco sacro di San Giuseppe
Manifestazioni
Gravina in Puglia la nòuva- nòuva, il "falò"
IL MITO
Il mito è un racconto popolare che vuole non tanto giustificare o spiegare, quando fondare la realtà del rito, cioè di quelle azioni che si compiono, si ripetono, ricorrono di frequenza periodica nel corso dell’anno.
La cerimonia viene così ad acquistare un valore sacro, nel porsi come una ripetizione, una perenne rivisitazione di un fatto eccezionale, lontano nel tempo.
A proposito della festa di San Giuseppe che cade il 19 marzo, si racconta che, dopo la nascita di Gesù, San Giuseppe, per riscaldare il Bambino che rischiava l’assideramento, andasse alla ricerca del fuoco. Dopo alquanto peregrinare nella notte gelida, giunse ad un bivacco di pastori, dove trovò dei carboni ancora ardenti. Li mise nella manica del vestito per trasportarli, in quanto non aveva con se un adatto contenitore e i pastori lo avevano accolto male, lanciandogli contro dei bastoni, perché aveva disturbato le pecore addormentate. Miracolosamente il vestito non subì nessun danno e così il fuoco poté riscaldare il neonato.
Per ricordare tale prodigio, la sera del 19 marzo vengono accesi, per le strade di Gravina, tanti falò.
IL RITO: LA NÒUVA- NÒUVA
Le notizie che riguardano l’accensione rituale di tali fuochi le ho messe insieme in parte raccogliendole direttamente, in parte sono stato coadiuvato nella ricerca dalla prof.ssa Mimma Dibenedetto e dai suoi alunni della 1A della Scuola Media Statale “Benedetto XIII” di Gravina nell’anno 1987.
La raccolta della legna si svolgeva per parecchi giorni precedenti e coinvolgeva i ragazzi, i bambini di un quartiere, come ricorda il prof. Francesco Mastrogiacomo nel suo libro sulle tradizioni popolari gravinesi. la legna da ardere veniva radunata in uno spiazzo del rione, e tutto il vicinato accorreva per assistere all’accensione della catasta.
In tempi più antichi il rito avveniva per mezzo di pietra focaia, le cui scintille venivano raccolte da stoppia o paglia. Quando questa cominciava a bruciare, la fiamma veniva propagata a fronde e rametti secchi di ulivo, o di ginestra, secondo un altro informatore. L’accensione veniva messa in opera da un uomo robusto, esperto. La fiamma così ottenuta veniva accostata alla catasta già preparata, che cominciava a bruciare. Era la nòuva- nòuva, il fuoco nuovo, detto anche fanòuve.
Intorno al falò, che veniva accendendosi, si formava un cerchio di uomini, che lanciavano nel fuoco diversi tipi di legno provenienti da varie piante, e soprattutto di quercia, olivo, mandorlo. Il falò doveva essere il più alto possibile, e i vari gruppi facevano a gara affinché il proprio fosse il più grande, ma specialmente con la cima fiammeggiante tanto alta, che doveva potersi scorgere dalla campagna intorno al paese. Quando le fiamme si abbassavano, tutti saltavano sopra.
Gli astanti recitavano o cantavano brevi strofette, del tipo seguente:
San Geseppe u vecchiaridde
vé sunanne u campanidde:
San Geseppe u sagrestène
u vé sunanne chiène chiène.
San Geseppe u vecchiaridde
porte u fùeche inde o mandidde.
U mandidde nan ze abbrusciàie,
e u Bambine s’angallesciàie.
San Giuseppe il vecchierello
va suonando il campanello:
San Giuseppe il screstano
lo va suonando piano piano.
San Giuseppe il vecchierello
porta il fuoco nel mantello.
Il mantello non si bruciava
e il Bambino si riscaldava.
Sulla legna si metteva una pignatta per cuocervi dei legumi, principalmente lenticchie. La gente si raccoglieva attorno al fuoco, molti sedevano su panchetti e sedie trasportatevi dalle vicine dimore. Per passare il tempo si raccontavano storie di santi e fatti miracolosi, si cantavano canti sacri. come quelli di San Michele e della Madonna di Picciano, dall’intonazione grave ed epica. I più giovani, ragazzi e ragazze, tenendosi per mano saltellavano in girotondo intorno al falò, solo alcuni ragazzi vi saltavano sopra, mai le ragazze. I legumi cotti venivano consumati sul posto. Quando la legna era consumata, alcuni si affrettavano a raccogliere i tizzoni ancora ardenti in un braciere che portavano a casa. A quel punto tutti si salutavano e rincasavano, mentre quello che restava del falò finiva di consumarsi. Il mattino successivo, secondo un informatore, le ceneri venivano raccolte e portate nei campi dove venivano sparse per favorirvi la fecondità della terra e propiziarsi un abbondante raccolto. La stessa cerimonia si svolgeva, senza varianti di rilievo anche il marzo, festa dell’Annunciazione. Al rito ci tenevano soprattutto a partecipare artigiani e carpentieri.
IL CIBO RITUALE
Nella ricorrenza della festività di San Giuseppe del 19 marzo era tradizione cibarsi di alcuni piatti tipici e di preparare alcuni dolci fatti in casa. Questi ultimi non erano esclusivamente confezionati in tale occasione, ma anche in altre festività, da Natale a Pasqua, ed erano i cosiddetti sassanèddere, sasanelli, fatti di farina, chiodi di garofano, cannella, vincotto, lievito, bucce d’arance seccate e tritate. Esclusivamente riservato alla festività di San Giuseppe è invece il “rùccolo” (rùcchele). Esso non ha niente a che vedere con quello del vicino materano, che si riduce ad una semplice focaccia più o meno condita con olio e origano. Si tratta, per noi, sempre di una specie di focaccia, ma formata da diverse sottili sfoglie di pasta, adagiate l’una sull’altra, e farcite con cipolla novelle preventivamente bollite, uva passa, filetti di alici salate. Alcuni vi aggiungevano anche baccalà ammollato. Il “rùccolo” ha forma rotonda. Un altro cibo rituale consumato in questa ricorrenza è la laianedda rizze pu mìere cùette, pasta fatta in casa, a strisce larghe e ondulate sui bordi, condita con vino cotto, ossia un liquido dolce ricavato dalla spremuta di fichi maturi.Tobia Granieri “Il fuoco sacro di San Giuseppe” in;
Tobia Granieri - Francesco Laiso "LA CARNE DEL DIAVOLO"
Liceo scientifico statale "G. Tarantino", Gravina - Tradizioni popolari gravinesi, Quaderni di ricerche e studi I