Il Dio-pastore dona la vita anche a chi gliela toglie
Politica e cultura
Icona rumena “Gesù Buon Pastore” realizzata su tavola di
legno
Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta:
“Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende
“buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore,
ma il pastore, quello vero, l'autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello,
l'unico, che mette sul piatto la sua vita.
Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo
evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell'aspetto,
ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il
Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono.
Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo
possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente
di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più
regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria
vita.
Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente
e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela
tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si
riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è
il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo
delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della
sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d'olivo che trasmette
potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile,
potente, illimitata.
Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge
perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli
importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove
immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità.
E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre
su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla
terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è
più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di
irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro
Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se stesso.
L'immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che
vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul
Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più”
che viene da lui, sull'impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di
questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei
mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo.
Ermes Ronchi novena.it