Il 2 giugno 1946 a Gravina in Puglia votarono per la Repubblica
Città e territorio
Le manifestazioni si trasformavano in rivolta, spesso giuste rivendicazioni, per il benessere, la libertà e la democrazia.
Il 2 giugno 1946 gli italiani andarono alle urne per scegliere, con un referendum, tra la monarchia e la repubblica. Bisognava votare apponendo una croce a fianco della corona reale oppure di due ramoscelli intrecciati, con in mezzo l’Italia. Con il 54,2% contro il 45,8% l’Italia divenne Repubblica. In Puglia votarono per la repubblica il 32,7% e per la monarchia il 67, 3%. La provincia di Bari premiò la monarchia con 354.284 voti, contro 191.354. A Bari città la repubblica registrò il 25,24% e la monarchia il 74,76%. A Gravina in Puglia votarono per la repubblica in 7.734 (60,56%) e per la monarchia in 5.039 (39,44%). Nello stesso giorno si votò anche per eleggere i rappresentanti all’Assemblea costituente. Nella circoscrizione Bari-Foggia furono presentate 12 liste. La più votata a Gravina in Puglia fu la lista n. 1, capeggiata da Giuseppe Di Vittorio del partito comunista, che ottenne 4.526 voti (27,18%). Seguirono la Democrazia cristiana con 2.738 voti (22%), il Partito socialista con 2.346 voti (18,83%), il Fronte dell’Uomo qualunque con 1.964 voti (15,94%), l’Unione democratica nazionale con 192 voti (1,54%) e l’Unione combattenti con 111 voti (6,51%). La percentuale dei votanti nelle elezioni del 2 giugno 1946 fu del 94,14%. Votanti a Gravina in Puglia: 14.199.
In quegli anni si moltiplicavano le manifestazioni di protesta. Gli slogan erano del tipo: “non vogliamo consegnare il grano all’ammasso”, “vogliamo il pane e il lavoro”. Alcune di queste manifestazioni si trasformavano in rivolta, nella maggior parte giuste rivendicazioni, perché a Gravina si requisivano centinaia di agnelli dalla produzione armentizia locale e grossi quantitativi di formaggio, per le popolazioni di altre città, mentre ai gravinesi non veniva fatta assegnazione di carne e alimenti essenziali per diversi mesi. Giacevano grandi disponibilità di pasta a Gravina, a disposizione degli uffici provinciali dell’alimentazione, mentre la popolazione soffriva la fame. Le lotte per il pane e il lavoro, per la sopravvivenza, per donare ai propri figli un domani migliore, di libertà, di benessere, senza servitù, furono gli assilli quotidiani della massa operaia. Il popolo gravinese era stanco di essere succubo di pochi terrieri, i quali, in genere si erano arricchiti con malizia e furberie, frodando e rubando durante il periodo precedente. In pochi guazzavano in tanta abbondanza e la stragrande maggioranza del popolo soffrire la fame. La ricerca del benessere e della libertà è il motore della storia. E l’ansia di riconoscimento diventa il più terribile fattore di mutamento sociale, di equilibri consolidati. Gravina era il paese più turbolento della provincia di Bari, segnalava in prefettura il commissario straordinario dell’epoca. Gravina bracciantile, infatti, costrinse il prefetto ad emettere nel ’44 il primo decreto d’imponibile di manodopera per i disoccupati agricoli, il primo in Italia. E la lotta contro i padroni delle terre diventò più violenta, a muso duro. In questi anni del secondo dopoguerra la propaganda anticlericale dilagava, insultando, denigrando vescovo, sacerdoti e religiosi. La Chiesa si trovava in cattive acque perché non sempre riusciva a stare con la classe operaia. L’intervento del vescovo del tempo, mons. Fra Giovanni Maia Sanna, verso i “signori agricoltori” si rese inevitabile: “bisognava assicurare un po’ di lavoro agli sventurati”, perché le condizioni di vita dei lavoratori erano impressionanti. In quegli anni si ribellò la vita. In queste lotte per il lavoro cresceva la solidarietà, la collaborazione, la capacità di operare insieme per risolvere i problemi. L’individualismo del contadino meridionale segnava il passo di fronte ai successi che registrava l’azione comune. Queste lotte per il lavoro posero i braccianti al centro dell’attenzione generale. Vi era stato qualcosa di qualitativamente nuovo: cominciavano a fare politica. I braccianti, ultima ruota del carro sociale, partendo da una condizione di estrema miseria, da una difficile condizione di vita sociale, seppero prospettare ed alimentare un corpo di proteste riformatrici di rilevante respiro e vigore nazionale. Non mancò in quegli anni la presenza e l’opera di alcuni malviventi che si arricchirono senza lavorare. Ci siamo documentati per interrogare la storia, vera maestra di vita. Storia dell’uomo che ci umilia ma, al tempo stesso, ci esalta, perché le rivendicazioni erano giuste, essenziali, necessarie. La conoscenza della storia umana e sociale della città ci aiuta a vivere la nostra vita con maggiore consapevolezza. Ci aiuta a capire e comprendere meglio la realtà nella quale viviamo e contribuire a migliorarla.
prof. Michele Gismundo