I ruderi di Belmonte
Città e territorio
Le foto di Fabio Raguso su gentile concessione del proprietario dei luoghi Raffaele Doria.
Notizie storiche sulla Chiesa e sulla torrre fortilizia.
Domenico Nardone, gravinese illustre (1878-1943) nel suo libro "Notizie storiche sulla città di Gravina" parla della dominazione sveva nell'Italia meridionale, 1197-1266 (cap. III) riportando "Notizie circa il Feudo e la Chiesa di Belmonte":
A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Gravina e al limite dell'odierno bosco comunale, andando dal tratturo Chimienti, esisteva in quest'epoca una chiesa con un fiorente villaggio rurale, a ridosso di una collina aspra e rocciosa. Coeva di quella di S. Angelo del Frassineto, era anche essa di origine benedettina ed era intitolata a S. Donato della Selva, per la sua vicinanza al bosco comunale allora chiamato « Selva ». Il più antico documento a noi pervenuto circa questa chiesa porta la data del gennaio 1084. Esso contiene il succitato privilegio dell’Arcivescovo Arnaldo di Acerenza a favore dell'Abate di S. Lorenzo di Aversa, ma in esso non si fa alcun accenno all'antestante villaggio che pure esisteva. Però, in un documento della seconda metà del XII secolo, mentre la chiesa con le sue adiacenze e pertinenze appare sotto la diretta giurisdizione dell'abate di Aversa, il villaggio e suo relativo territorio viene riportato come feudo a se sotto il nome di “Castrum belli montis”. Posseduto in quest'epoca da un tal Guglielmo de Garreis, suffeudatario del conte di Gravina Gilberto dell’Aigle, era tassato in caso di guerra per quattro militi, portati poi a 14, e otto inservienti. In una nota di epoca successiva, riportata nel Ragguaglio “per la università ed uomini di Gravina”, è detto che nel 1274 era signore di questo piccolo feudo un tal Lodovico De Medioblandi. Stando, poi al Beatillo (Storia di Bari) parrebbe che al De Medioblandi fossero succeduti nel possesso i fratelli Nicola e Matteo Effrem di Bari (1276). Un documento del 16 novembre 1307, contenuto nei registri Angioini ci fa intravedere il suo avvenuto passaggio al R. Demanio, per cui Re Carlo d'Angiò lo concedeva sotto questa data ad un certo milite Oddone Rapa, precettore dei suoi figli minorenni Giovanni e Pietro, in complemento di once quaranta d'oro dovute per suo stipendio. Nel documento si specifica che venti once dovevano essere prelevate dai diritti e provventi della baiulazione della terra di Eboli, e le altre venti dal «feudum seu castrum belli montis». Si soggiungeva pure che tale feudo, per avere i suoi termini di confine nel territorio di Gravina e per essere troppo vicino alla stessa città, aveva già provocato un R. Decreto di annessione alla città di Gravina. Tale decreto, datato sembra il 2 giugno dello stesso anno, doveva contenere le ragioni dell’annessione e la indicazione della linea di confine, ma a noi non è pervenuto. Stando ancora al Beatillo. parrebbe che le cause fossero da ricercarsi nei facili litigi che frequentemente avvenivano fra l'autorità feudale di Gravina e quella di Belmonte, nonché fra le rispettive popolazioni. E se il decreto di Carlo II d’Angiò (cui si riferisce la suindicata carta) valse a tranquillizzare il feudatario di Gravina, non riuscì però a fraternizzare gli animi dei due popoli, per lo spirito di quei terrazzani divenuti più irrequieti di prima a causa della perduta autonomia. Da ciò il continuo rinnovarsi delle antiche lotte e guerriglie che forse motivarono la denominazione di Bellimontis, ossia monte della guerra o della discordia. Comunque, nella seconda metà del XIV secolo il feudo appare ancora abitato ed in piena efficienza, come si rileva da un documento del 1° gennaio 1362 riguardante una vertenza avvenuta tra l'abate Ugone del monastero di S. Lorenzo di Aversa e il Vescovo di Gravina, allora Mons. Giovanni di Gallinaria. Un documento del 1488 del Re Ferdinando I d'Aragona riporta tale feudo tra i beni del Duca di Gravina Francesco di Raimondo Orsini, ma col villaggio già diruto e disabitato. Il Beatillo lo dice distrutto ad opera dei Gravinesi per le continue ed impertinenti devastazioni compiute da quei terrazzani a loro danno; ma noi, tenendo presente i danni arrecati dal terremoto del 1456, riferiamo a questo accidente la sua completa rovina, tanto più che la stessa Chiesa, dopo quest'epoca, appare gravemente danneggiata e poi riparata e riconsacrata sotto il nuovo titolo di S. Maria di Belmonte e sotto la giurisdizione dei vescovi di Gravina (Archivio Vescovile). Abbandonato il diruto villaggio, ma restaurata la chiesa, questa continuò a rimanere aperta al culto dei coloni fino al 1788. Dopo questa data, danneggiata nuovamente e gravemente da altre scosse di terremoto, abbandonata e priva delle necessario urgenti riparazioni, crollò fino alle fondamenta, sicché oggi non rimane sul posto che un rudere attribuito al suo campanile, che, a giudicare da quello che ne resta dovette avere i caratteri di una torre fortilizia a forma quadrata, il che dava al feudo l'aspetto e giustificava il titolo di Castrum.