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Città e Territorio
Il mietitore, con quel sudore che non smetteva di scendere a rivoli dalla fronte
La mietitura del grano durava dai 15 ai 20 giorni. Il lavoro dei mietitori iniziava alle prime luci dell'alba. Si cominciava a mietere il grano con il fresco del mattino, per proseguire poi per il resto della giornata. Si lavorava sotto il sole cocente del mese di giugno. Così i mietitori indossavano il cappello e le donne un fazzoletto chiaro per proteggersi il capo dal sole. Arrivavano a Gravina i mietitori da altre località, portando con sé le falci e un fagotto contenente una coperta e un cambio di camicia e pantalone. In paese andavano ad occupare la piazza dove a gruppi si mettevano a disposizione dei proprietari dei campi e sempre qui alla sera pernottavano sotto le stelle. I proprietari ( per essi il massaro di campo) che ne avevano bisogno li passavano in rassegna valutandone con sguardo esperto, per simpatia, le capacità e l'efficienza, quindi li assumevano nel numero che ritenevano necessario alle loro esigenze. Gravina, col suo territorio agrario di quasi 42.000 ettari, quasi tutto coltivato a frumento, aveva bisogno di mietitori dei paesi vicini nel mese di giugno. E in piazza delle Some (oggi piazza Notardomenico) si svolgeva il mercato delle braccia, per l'ingaggio della mano d'opera. Lì passavano la notte i mietitori forestieri, e al mattino partivano con i mezzi del padrone, caricati sul grande traino ("u carr'toun") e trasportati a destinazione. I mietitori si disponevano uno accanto all'altro, dinanzi al proprio filare di frumento dorato e ricurvo e pronto per essere mietuto. Il caldo spesso era tanto ed afoso: mancava il respiro e il sudore non smetteva di scendere a rivoli dalla fronte, dalla faccia, da tutto il corpo. Era necessario di tanto in tanto sospendere per un po' il lavoro per dar modo ai mietitori di dissetarsi con l'acqua fresca o col vino del fiasco tenuti al fresco e di darsi un'asciugata in fretta e alla meglio. L'acqua era contenuta nel contenitore di argilla, " l'amlicch", il vino era invece contenuto nella fiasca di cinque litri. Entrambi i recipienti erano muniti di un cannello di canna all'imbocco, si beveva tutti a garganella, senza posare le labbra vicino al cannello. Si beveva così anche per ragioni igieniche. I mietitori dietro di loro lasciavano un gran numero di mannelli, quei piccoli fasci di grano che venivano raccolti ed uniti in covoni (" l' gregn"). Il mietitore sapeva usare la falce senza crearsi infortuni: usava dei pezzi di canna incanalati nelle falangi delle dita della mano sinistra, e sull'altro braccio ben legato, un pezzo di cuoio, per evitare le abrasioni cutanee degli steli secchi delle spighe. Indossavano pantaloni lunghi e scarponi i mietitori, mentre indossavano calze spesse le donne per evitare lacerazioni alle gambe. Al collo l'immancabile fazzoletto rosso a quadratini chiari, per asciugare il sudore che colava della fronte, abbondante. Il mietitore era abile a legare e a costruire covoni, da trasportare poi sull'aia per la trebbiatura. Mangiavano più volte al giorno: prima di cominciare, verso le cinque del mattino, si dava loro del pane e formaggio ("nu' muzzch'"), verso le nove si prendevano un altro boccone, magari con un po' di lardo e qualche peperoncino piccante, pomodoro e cipolla e con vino sempre in abbondanza. Poi c'era la sosta per il pranzo di mezzogiorno, spesso preparato e portato sul campo, fatto con pasta di casa, con il sugo di pomodoro o con fave, lenticchie, cicerchie, accompagnati da qualche pezzetto di carne e formaggio. Non mancavano mai i pomodori, i peperoni dolci fritti oppure i peperoncini piccanti, le cipolle e qualche frutto di stagione. Alla sera, verso le otto o le nove, i mietitori ritornavano in paese. Quelli assunti dai grandi proprietari terrieri di solito non tornavano alla sera in paese perché si fermavano a mangiare e a dormire nelle masserie dei latifondisti. E per cena un piatto caldo e un bicchiere di vino. Per la paga, spesso, bisognava attendere la vendita del grano prodotto. Certo era un rito importante quello della mietitura nella vita del contadini del Sud. Venivano coinvolti tutti i componenti della famiglia. Nessuno disertava. E il paese si affollava di traini che trasportavano covoni dai campi alle aie per la trebbiatura.
Michele Gismundo
Michele Gismundo, La ricostruzione a Gravina in Puglia 1943-1947, Tesi di Laurea, Urbino 1992
Michele Rigato, E così fu. Attraverso il Novecento ricordi per l'Italia di oggi, Pianetalibero editore, Avigliano 2003
Saverio La Sorsa, Fiabe e novelle del popolo pugliese, Edizioni di Pagina, Bari 2014