Il Santissimo Carnevale e il pranzo del Purgatorio - GRAVINAOGGI

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Il Santissimo Carnevale e il pranzo del Purgatorio

Manifestazioni
Carnevale etimologicamente significa abolire l'uso della carne dopo le manifestazioni di allegria chiassosa, di baldorie, di confusione e di feste mascherate, forse da: carne levare. È il periodo che precede la Quaresima. Storia, leggenda e folklore si intrecciano a simbolismi misteriosi e inquietanti in questo carnevale pieno di personaggi le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Il Carnevale, come da più parti è sempre stato rilevato e ben evidenziato, è uno dei più importanti riferimenti alle culture agro-pastorali e pre-industriali. Questa centralità è ben racchiusa in un'espressione raccolta in Lucania: "Tré so l’ fest prencepale l'Notal, Pasqua e l'sondessem' Carnevale". II Carnevale non è soltanto una festa, come Natale e Pasqua, secondo questa massima, ma è addirittura anche "Santissima". La santità attribuita al carnevale, gioca contrastivamente, è vero, in funzione delle feste sante, secondo la concezione cristiana e cattolica, del Natale e Pasqua; ma il suo carattere Santo (naturalmente di una santità in gran parte esterna al significato cattolico), oltre ad avere un senso giocoso, fa affiorare ed evidenzia, il senso rituale e culturale di un antico legame, mantenuto, con la santità del ciclo rigenerativo e riproduttivo della natura. Il carnevale è santissimo li dove lo leggiamo ancora per quello che, in effetti, ha sempre voluto significare per le culture contadine: una festa di eliminazione del vecchio, di rinnovamento e di propiziazione dell'incognito. Morto Carnevale, a Gravina, secondo una descrizione dello studioso locale Francesco Mastrogiacomo, il fantoccio, veniva sepolto con tutti gli onori. La "Quaresima", ossia la vedova del povero Carnevale (una pupattola di stoffa in gramaglie) pendeva, il giorno delle Ceneri, in Via S. Sebastiano, mostrando a tutti i passanti la sua vedovanza e il suo dolore per 40 giorni di seguito. Al di sotto della sua gonna nera teneva un'arancia, in cui erano infisse sei penne nere, pari al numero delle settimane fino al giorno di Pasqua. Ogni sette giorni la triste vedova si mostrava in un atteggiamento diverso, cioè filava, dipanava una matassa, tesseva o faceva pulizia, e, contemporaneamente perdeva una penna alla settimana. Il giorno di Pasqua la "Quarantena" metteva fine alle sue lacrime e alle sue fatiche e convolava a nuove nozze. Una volta si divertivano tutti. L'ultima domenica di carnevale si rinnovava la tradizione della "corsa all'anello". Gravina viveva come Siena le ore del suo palio: la giostra a cavallo, che si svolgeva in Via S. Sebastiano, per prendere, con una bacchetta di legno, un anello di ferro, sospeso a un pezzo di ferula, tenuto fisso nel centro della strada da una corda tesa fra due balconi. Il cavaliere che riusciva a strappare l'anello di ferro, riceveva in cambio l'anello d'oro. A Palo del Colle, invece, i cavalieri che riescono a centrare con una lancia una vescica piena d'acqua vincono un tacchino, che diventa il piatto forte del banchetto finale offerto dal vincitore. Ci sono simbolismi misteriosi per la festività del carnevale che coinvolgono tutti: ricchi e poveri. A Gradoli, infatti, il giovedì grasso, si svolge la festa degli incappucciati ovvero degli appartenenti alla ''fratellanza del purgatorio", i quali indossando i caratteristici cappucci, girano per il paese facendo questua per l'allestimento del grandioso "pranzo del Purgatorio", previsto per il giorno delle Ceneri. A Capua il Sindaco consegna, il giorno prima, le chiavi della città a carnevale che governerà a modo suo, con tanto di proclama, fino alla sera del martedì grasso. Ad Ivrea le giornate clou vanno dal giovedì grasso al martedì e rievocano le vicende della "bella mugnaia" che rifiutando lo "jus primae noctis" al marchese tiranno innescò la miccia della ribellione. Oltre 1500 personaggi animano lo storico carnevale, che ha il suo momento più spettacolare nella "battaglia delle arance", dove le squadre sui carri rappresentano i signorotti scacciati e quelle a piedi il popolo insorto; come munizioni tonnellate e tonnellate di arance sanguinelle, fatte arrivare a vagoni dalla Sicilia, che bombardano senza pietà tutti i presenti. Il Carnevale attiva tutta la gente e, in ogni angolo della penisola, ci sono sfilate, rievocazioni, mascherate e banchetti luculliani. Tutto ciò però è soltanto un pallido ricordo - a detta degli storici - della densità dei significati antropologici i che i grandi carnevali hanno avuto nell'antichità. Dalle antiche "propaggini" alla maschera di Farinella a Putignano, nella provincia di Bari, il Carnevale ebbe inizio il 26 dicembre del 1394, data in cui furono traslate dal castello di S. Stefano di Monopoli e condotte a Putignano le reliquie del protomartire S. Stefano – scrive Michele Marullo - per metterle al sicuro dalle frequenti scorrerie dei Saraceni, perpetrate ai danni delle città del litorale. I contadini, intenti al lavoro d'innesto delle viti, si accodarono festanti alla processione e dopo la cerimonia religiosa si abbandonarono a canti e balli, improvvisando versi e rime. Nacque così la “propaggine” (l’arte di trapiantare le viti).
L'antichissima tradizione - osserva Marnilo – viene puntualmente rinverdita, nel giorno di S. Stefano, da poeti dialettali mascherati con abiti contadini, che girano per le vie cittadine declamando versi a rima baciata, ironizzando su personaggi e fatti che hanno caratterizzato la vita della città e della nazione nell'ultimo anno. Bernardo Notarangelo, storico della tradizione carnascialesca putignanese, ricorda gli elementi particolari del carnevale di Putignano: "u'ndond'r" e i cinque giovedì successivi al 17 gennaio. Il primo deriva da un verbo greco che significa rumoreggiare; i secondi invece vengono dedicati a personaggi precisi, i preti, i giovani, le donne maritate, ed altri. Anche a Palo del Colle il "Palio del Viccio" rappresenta una delle istituzioni più antiche in Puglia, rilevata da un documento del 1546 del Comune di Palo che recita: "Palio detto di S. Luca" torneo cavalleresco che è stato l'antesignano dell'odierno "Palio del Viccio" (cosi viene chiamato il tacchino in dialetto palese). Le maschere della transumanza di Tricarico della Lucania, escono dalle case per ritrovarsi presso la Chiesa del Santo protettore degli animali. È questo un rito prelevato dai canoni della civiltà contadino-pastorale che combinano sacro e profano con delicatezza. Anche il Carnevale nel Salento viene testimoniato dalle maschere della Grecia salentina. A Gallipoli con la classica maschera "Titoru". A Copertino con la maschera "lu Paulinu". In molti centri come Lecce, Parabita, Martignano, Sanarica, Martano, Casarano, Salice Salentino e Trepuzzi, nel rispetto di un antico canovaccio, si ha il trionfo di re Carnevale e il contrasto con la Quaresima con la condanna a morte e testamento di re Carnevale con rogo, fuochi d'artificio e gran ballo finale. A Sannicandro il Carnevale viene "condannato a morte" e si rivive la Quarantana con il rito che scandisce il passaggio dal Carnevale alla Quaresima, nel giorno delle Ceneri. A Bari il Carnevale vive di ricordi. Un tempo si iniziava dal 17 gennaio, con la festa di S. Antonio Abate e la famosa "banne de le chiacunne" che girava casa per casa e i musicanti venivano pagati con fichi secchi. Si ricorda la caratteristica sfilata delle carrozze con festose maschere, in Corso Ferdinando e Vittorio Emanuele; mentre Via Sparano - scrive Lojacono - era riservata alle maschere a piedi. Il culmine del Carnevale barese era il martedì grasso con il funerale di "Rocche", un fantoccio disteso in una specie di feretro che simboleggiava un contadino. Il corteo funebre si snodava per le strade del centro seguito dalla moglie di "Rocche" (per lo più un robusto portuale travestito da donna) che piangeva il marito morto gridando "Rocche, Rocche, e mmò ci v'à chianddà la bastenache?" (Rocco, Rocco, ed ora chi pianterà la carota?). Poi, - racconta Lojacono - prima chi venisse scaraventato in un fossato al defunto veniva dato "defriscke" (il rifresco), espressione che il sacerdote, anch'esso travestito, effettuava con il liquido attinto da un vaso da notte. Il Carnevale barese ricorda Alfredo Giovine, aveva termine soltanto quando suonavano le "schegnetorie" (rintocchi mesti di campane col battaglio avvolto in uno straccio): cominciava la Quaresima. Il funerale di "Rocche'' - osserva Lojacono - è forse l'unica tradizione sopravvissuta del Carnevale barese. Ma non suscita più l'entusiasmo di un tempo.
Franco Noviello


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