Il lavoro rischioso nei forni da calce, “la cal’coir” - GRAVINAOGGI

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Il lavoro rischioso nei forni da calce, “la cal’coir”

Città e territorio
Il forno da calce, la calcara, in dialetto gravinese denominato "la cal'coir", era un forno di origine antica per produrre la calce. La calce prodotta era molto richiesta sul mercato regionale dell'edilizia, perché igienica e di colore bianco, era ed è tutt'ora elemento caratteristico della tinteggiatura delle murature esterne delle case dei Paesi dell'area del mediterraneo. Nel secondo dopoguerra c’erano a Gravina 27 calcare, ben funzionanti e quasi tutte di proprietà comunale. I forni da calce venivano concessi ai lavoratori, con gara pubblica in comodato, ad un prezzo congruo, ma importante per le casse comunali. Calce di ottima qualità la nostra, perché proveniente da pietre rocciose resistenti. Materiale prezioso in quegli anni, scavato ed estratto dalle cave, " u p' troil".  La pietra di Gravina aveva bisogno di una cottura che andava dai 12 ai 13 giorni, con fuoco vivacee costante. Per produrre mille quintali di calce occorrevano quasi 900 quintali di paglia da ardere. Si preferiva incrementare la produzione della calce nel periodo estivo, con paglia asciutta, produttrice di calore. Alcuni ruderi di forni a calce a Gravina sono ancora in bella vista a ridosso dell'edificio scolastico "Fratelli Cervi" oppure sulla via per Dolcecanto. Il fratello più giovane di mia madre Arcangela Abbattista, faceva "u calcaroul". Il 2 agosto 1939, all'età di 18 anni, durante la fase di cottura della calce, a circa mille gradi di temperatura, cadde dentro la calcara. Morì dopo tre giorni per le gravissime scottature alla pelle. Nessun risarcimento fu corrisposto ai suoi familiari dal padrone della calcara. In quegli anni non c'erano diritti per i lavoratori, di nessuna natura.  Particolarmente faticosa e delicata era la fase di preparazione del forno da calce. Prima di accatastare le pietre rocciose si realizzava una camera di combustione, a forma di botte, parzialmente scavata nel terreno e rivestita a secco di altro pietrame. Una piccola porticina aveva lo scopo di far entrare aria ossigenata nella camera di combustione, nonché consentire l'accensione e l'alimentazione del fuoco. Doveva essere un fuoco molto allegro e costante, bruciando paglia e, a volte, scarti della produzione di legname. La temperatura raggiungeva 800 - 1200 gradi e l'operazione di mantenimento del fuoco era seguita da almeno sei addetti, fuoco sorvegliato da una persona di grande esperienza: il fornaciaio da calce. Per controllare lo stato di cottura si prendeva uno dei sassi e lo si buttava nell'acqua fredda e si verificava la tumultuosa reazione. Oppure si tentava di forare un sasso utilizzando un apposito punteruolo di ferro, se riusciva a penetrarlo la calce era pronta. Seguiva il lavoro di estrazione dal forno della calce prodotta, un lavoro delicatissimo e pericolosissimo. Ecco trasformati i sassi in bianca calce, detta calce viva, che veniva gettata in una apposita fossa, scavata nel terreno ed irrorata d'acqua, per provocare una reazione chimica. Al termine si aveva la calce morta, detta anche calce spenta, ed era pronta per la commercializzazione e l'utilizzo.
Dal libro di Michele Gismundo, La Ricostruzione a Gravina in Puglia 1943-1947, Fatti che sollecitarono ibraccianti alla lotta,ed. Centrostampa, Matera 2017

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