"Jangidominiche"(Angelo Domenico) una maschera sfortunata - GRAVINAOGGI

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"Jangidominiche"(Angelo Domenico) una maschera sfortunata

Manifestazioni
Si chiamava Angelo Domenico ma la natura gli era stata matrigna in quanto gli aveva dato un corpo senza grazia e una testa molto piccola. Anche il cervello doveva essere molto piccolo. Cresceva con gli altri bambini, anche se talvolta era aggredito da questi, picchiato e insultato col nomignolo di “Jangidiminiche”. E la mamma a correre in suo aiuto, a dividerlo, a portarlo a casa, piangente, col cuore ferito. Gli asciugava le lacrime, lo rabboniva, gli prometteva le cose più belle e più inventate. E quando arrivava l’ultimo giorno di carnevale, lo travestiva da Arlecchino, lo metteva su un asinello e lo portava in giro, perché ridesse e si divertisse pure lui al chiasso e alla baldoria che facevano le maschere. Ma quel giro non durava mai a lungo, perché i suoi stessi compagni e gli altri del vicinato, travestiti pure loro, lo riconoscevano, si stringevano attorno al suo asinello e cominciavano e berciare: “Jangidiminiche, Jangidiminiche”. La mamma li invitava con le buone e con le brutte ad allontanarsi, a lasciare che suo figlio si sentisse come gli altri in quel pomeriggio di gioia e di baccano, ma i cattivelli non mollavano e ripetevano quell’insulto con maggiore accanimento: “Jangidiminiche, Jangidiminiche”. A nulla servivano le proteste e le grida di una madre furente; alle piccole maschere si univano le grandi per ingrossare il coro: “Jangidiminiche, Jangidiminiche”. Era allora che il povero Arlecchino impotente tentava di liberarsi del suo vestito multicolore e si pestava, per la rabbia, gli occhi coi pugni stretti. Finiva la madre per sottrarlo a quella cane forsennata e lo portava a casa, dove riusciva a farlo addormentare coi suoi baci, con le sue carezze, con una cantilena che gli dettava soltanto la sua disperazione. Il muro della malvagità umana anche quel giorno era rimasto in piedi nella sua compattezza.
Francesco Mastrogiacomo
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